C’era una volta… la narrazione.
Potremmo aprire così, cari lettori, secondo la migliore tradizione della affabulazione romanzesca, il nostro racconto.
C’era una volta la narrazione.
E in effetti, la più antica magica storia di tutti i tempi, d’una forza seduttiva intramontabile, narra di una giovane donna, scaltra e curiosa, di nome
Shahrazàd, figlia maggiore del gran visir, che per placare l’ira omicida contro le donne del re persiano Shahriyàr escogita un piano: ogni sera racconta al sultano una storia, rimandando però il finale al giorno dopo, in modo che il sovrano resti in sospeso, costantemente in attesa dell’epilogo, per “mille e una notte” (forma simbolica per indicare un tempo imprecisato di tempo), fino a quando egli si innamorerà della fanciulla e le renderà salva la vita.
Insomma, una meravigliosa metafora del potere del racconto, della capacità evocativa della parola, della funzione salvifica e liberatoria della narrazione: il dono per eccellenza.
È quello che capita, non troppo diversamente, nel Proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio, una sorta di manifesto letterario, dove l’autore dichiara che le sue novelle, ricche di un invincibile potere di incantamento, sono destinate alle donne, imprigionate nelle loro camere dai mariti, dai padri, dai fratelli: e dunque chi più di loro si merita il “dono” della narrazione?
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri, dà piaceri, dà comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, [...] volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri.
E arriviamo così, grazie alla guida di un Maestro della parola, al cuore del nostro discorso: la scrittura è un dono.